Malinconici “Vecchi tempi” all’Argot

26 Marzo 2024

di Emiliano Metalli

La stagione del Teatro Argot è senza dubbio costellata di gioielli. Ma la sua peculiarità consiste, oltreché nell’alto profilo delle scelte in cartellone, nella stessa modalità di fruizione dell’atto scenico. La vicinanza agli interpreti, la partecipazione “comune” all’azione e la singolare modalità di accesso allo spazio rendono questa esperienza unica.

Pinter, poi, è un pregio ulteriore. I teatri hanno spesso sete di “nuova drammaturgia” e in questo modo dimenticano (o sottovalutano o rifiutano?!) altrettanto spesso le potenzialità drammaturgiche di alcuni testi. Quelli che, al tempo del loro debutto, hanno destrutturato le regole della società novecentesca dando a noi contemporanei le chiavi di accesso alle conquiste di oggi. O almeno hanno segnato una strada, fra le innumerevoli. Pinter è fra questi, senza dubbio. Ha lavorato, come altri, dall’interno: partito da una situazione borghese – una cena di una coppia di amici con un’amica che la moglie non vede da vent’anni – egli l’ha frammentata in più situazioni.

Analitico, è indubbio, del rapporto matrimoniale, dei suoi segreti e dei meccanismi, così come pure dei rapporti fra le persone più in generale. Ha declinato il triangolo amoroso (Cielo, mio marito! Cielo, mia moglie!) e tutto quel che ne consegue in una modalità più profonda, inaspettata in cui la parola e l’atteggiamento alludono spesso a qualcosa di altro. Qualcosa che spinge interpreti e pubblico oltre i meri significati del dialogo.

Sembra che questo punto di vista sia condiviso anche da Filippo Gili. La sua regia immerge il testo, adattato con efficacia all’esigenza contemporanea, in una sorta di sala museale: sul fondo una immagine del mare, più volte citato dai personaggi. Ma è un mare manipolato tanto quanto le parole dei tre, non ha nulla di naturalistico.

È, appunto, una immagine del mare che racconta di sé altro rispetto alla realtà. Proprio come suggeriscono le interazioni fra Anne, Kate e Deeley in questo spazio ibrido. Un salotto o un museo, alle cui pareti laterali sono appese cornici prive di contenuto. Quadri, come quelli di Georges Braque, o forse foto dei “vecchi tempi”.

E in questo spazio polisemantico si consuma l’incontro dei tre, desiderosi di rivedersi, di ritrovarsi o semplicemente di scoprire qualche dettaglio dell’altro, persino una conferma di un affetto antico.

La conferma di un sentimento dei “vecchi tempi” che non fu frainteso, ma solo superato.

Senza un giudizio morale o sociale, l’incontro inizia e finisce fra attimi di risa, facce attonite o spaventate, più spesso interrogative, sardoniche e certamente mutevoli. Senza soluzione di continuità è il mutamento a portare avanti la pièce.

Un continuo cambiare di espressioni, atteggiamenti del corpo, accenti con l’idea che tutto voglia alludere ad altro, sebbene poi tutto riconduca al dato reale, senza sofismi, senza troppi voli pindarici. Eppure il testo è intessuto di rimandi, sottili e impalpabili: Taormina, ad esempio, che rimanda al tema dell’omosessualità mascherata (neppure troppo) di Wilhelm von Gloeden o del pittore Robert Hawthorn Kitson, quando cultura tedesca e inglese erano assai affini da questo punto di vista.

Pinter non poteva ignorare certi dati che, nella società inglese del tempo, erano ben presenti. Lo spettacolo infatti debutta nel 1970, a un anno di distanza dall’abolizione delle leggi contro gli omosessuali (uomini!) che la stessa regina Vittoria aveva approvato appena un secolo prima.

I tre interpreti, poi, assecondano questo vortice di cambiamento silenzioso utilizzando ogni linguaggio a loro disposizione, asciugando gestualità e parole, ma senza intenti narcisistici. Si percepisce una reale attrazione fra loro, una sorta di delicato equilibrio fra le parti, misto di rispetto e attesa. Oltre il divismo di alcuni palchi blasonati, qui si respira il desiderio di mettersi in gioco, nonostante i traguardi artistici e personali raggiunti. Oltre ogni dimostrazione, vibra il desiderio di confrontarsi con se stessi per il pubblico, insieme ad esso. Lo confermano i lunghi e rumorosi applausi finali, dopo più di un’ora di silenzio e attenzione, destinati ai tre interpreti.

Nonostante le molte lodi alla enigmatica Kate di Giulia Perulli, sono Anna Foglietta e Alessandro Tedeschi che raggiungono esiti emotivi ed espressivi eccellenti nei rispettivi personaggi.

Uno dubbioso, incerto, impacciato eppure teneramente fragile, di una fragilità evidente eppure mascherata con la destrezza dell’arte e la delicatezza dell’intuito.

L’altra intensa, caparbia, indagatrice, ma nello stesso tempo carezzevole, spiritosa e profondamente sincera. Ho visto altre volte Anna Foglietta in palco, eppure la lucentezza di alcuni sguardi e il chiaroscuro di alcune espressioni hanno rivelato – ancora una volta, in questa occasione – un talento raro, una intelligenza unica, uniti a una sensibilità senza tempo.

VECCHI TEMPI

di Harold Pinter

con Anna Foglietta, Alessandro Tedeschi e Giulia Perulli

regia Filippo Gili

produzione Argot Produzioni

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