recensione di Emiliano Metalli
Il Trittico ricomposto: Tabarro di Puccini e Il castello del Principe Barbablù di Bartók al Teatro dell’Opera di Roma fino al 18 aprile.
Potrebbe sembrare un azzardo accoppiare due titoli così diversi. E invece una scommessa all’apparenza rischiosa si è rivelata una operazione eccellente sotto il profilo culturale e ha inoltre messo in luce sottili richiami e legami più profondi fra due compositori molto distanti.
Innanzitutto l’anno della prima rappresentazione, il 1918, che è stato un anno di importanza cruciale per l’Europa, in cui la società, la politica e le esperienze artistiche hanno subito un cambiamento drastico.
E poi l’idea di coppia e legame matrimoniale che rispecchia da un lato la necessaria rinuncia ai sogni personali, dall’altro il senso del segreto, del passato e la sostanziale separazione fra i due sessi.
Infine l’attenzione continua e crescente all’elemento orchestrale come combinazione di soluzioni drammatiche sotterranee, viscerali e, quasi, inconsapevoli.
La riuscita di questo Trittico ricomposto è possibile grazie all’unificante idea registica di Johannes Erath che non si pone mai al di sopra della musica e degli interpreti, bensì cerca di svilupparsi coerentemente insieme alle indicazioni del direttore e alle caratteristiche fisiche e vocali di ogni singolo personaggio. L’azione sulla scena è una naturale epifania di quanto la musica vuole evocare: questo accade non solo per Bartók, in cui la struttura e la partitura hanno un legame meno vincolato alla tradizione esecutiva, ma anche per Puccini.
Straordinariamente la regia di Erath mostra un Tabarro nuovo, non esteticamente rinnovato, ma sradicato da certi tradizionalismi polverosi e restituito al pubblico in una chiave inaspettata e affascinante. I mezzi scenici vengono impiegati per costruire un continuum spazio-temporale in cui realtà e pensiero convivono. Una azione che, attraverso il dinamismo atemporale delle immagini, delle luci, dei corpi, degli oggetti e delle scene, evoca i sentimenti repressi dei tre protagonisti: Giorgetta, Michele e Luigi.
In questa impostazione scivola in secondo piano l’elemento verista (il tradimento e la vendetta), prende invece prepotentemente centralità quello psicanalitico di un desiderio castrato.
Persino i personaggi secondari infatti possiedono anima e speranze deluse che dal fondale macchiettistico, cui tradizionalmente vengono relegati, sono riscattate grazie a una visione rovesciata. Tinca, Talpa e Frugola, infatti, aprono spiragli di riflessione non per mezzo delle solite gigionerie, bensì attraverso una aderenza psicologica al libretto, trasposto in una sorta di universo parallelo, non tradizionalista, ma contemporaneo. Un multiverso in cui la Frugola canta circondata da uomini (gli stessi che appariranno nel Castello come emanazioni di Barbablù) e il Tinca balla con la padrona abbracciandone voluttuosamente le gambe: azioni che entrambi vorrebbero compiere, ma che, di fatto, sono loro precluse. Erath ci mostra questo, del Tabarro: la crudezza della realtà a confronto con la fragilità del desiderio interiore, mutuando una profondità di analisi forse dall’altro titolo in programma.
Il sogno di Giorgetta, infatti, è iconicamente speculare al mondo nascosto di Judit e Barbablù: ce lo conferma la compresenza delle giovani danzatrici, delle donne vestite con splendidi abiti multicolore – a simboleggiare forse la complessa declinazione dell’animo femminile – e inoltre lo “sfondamento” del fondale scenico, ultima porta dell’animo umano oltre cui non è possibile procedere.
Infatti alla fine Barbablù esce di scena da una reale porta di servizio.
Altro fil rouge fra i due titoli è infatti il teatro come luogo fisico e metafora di una continua e fantasiosa trasformazione della realtà.
Ciò è possibile grazie alle scene lineari e strutturalmente essenziali di Katrin Connan e ai costumi di Noëlle Blancpain, perfetti sia nella inquietante quotidianità maschile sia nell’estroso, estetizzante citazionismo femminile.
A completare l’idea registica si aggiungono la centralità delle luci di Alessandro Carletti, soprattutto in Bartók che incentra la sua drammaturgia proprio sulla contrapposizione buio/luce, e i video di Bibi Abel, che toccano l’apice nella scena dell’aria di Luigi: le bolle di aria nell’acqua preludono alla morte per soffocamento, ma anche alla costante mancanza di ossigeno, condizione di una vita votata al solo sacrificio, a prescindere dalla morte fisica.
A legare il titolo pucciniano a quello di Bartók, inoltre, è l’impostazione ciclica della vicenda per cui a ogni inizio corrisponde scenicamente la stessa situazione della fine, in una sorta di eterno presente. Quello che in Bartók è chiaramente indicato da testo e impostazione tonale della partitura, è registicamente riproposto anche in Puccini con impressionante coerenza interna del titolo e dell’operazione “dittico” nel suo insieme.
Anche Michele Mariotti raccoglie i meritati consensi nella direzione di due opere strutturalmente così diverse eppure accomunate dalla concezione sinfonica dell’orchestra.
A fronte di un titolo, quello pucciniano, in cui è perfettamente a suo agio e trova il giusto colore e l’atmosfera adatta in ogni momento, Mariotti dimostra un piglio caratteriale ben più arguto e attento nella concertazione del Castello del Principe Barbablù: segno di una maturità artistica ulteriormente confermata. La melodia pentatonica del principio torna nel finale ed egli ne sottolinea la corrispondenza, in accordo con la scena, amplificando il clima antico e leggendario nei colori orchestrali in tutti i passaggi, da un quadro all’altro. Le tappe del confronto tra Judit e Barbablù hanno infatti un corrispettivo musicale per cui è necessario prestare attenzione nella costruzione del percorso, dal buio alla luce al buio, che caratterizza in modo decisivo l’azione e che ha un corrispettivo nei timbri dei singoli interventi, negli impasti orchestrali e nel rapporto con i due interpreti.
Mariotti guida con sicurezza un’orchestra attenta e disponibile che apprezza le sue indicazioni e ne segue le volontà.
Nel Tabarro spicca l’essenzialità scenica di Luca Salsi nei panni di Michele, dalla vocalità prepotentemente drammatica, ma mai volgare, magnificamente bilanciato dalla tenerezza timbrica e dall’appassionata naturalezza della Giorgetta di Maria Agresta, in splendida forma vocale e spigliata sulla scena. Indimenticabile la sua aria in cui alle doti dell’interprete – fraseggio attento, acuti brillanti e penetranti – si somma una idea registica semplice ma efficacissima: la chiusura del sipario alle sue spalle.
Un “montaggio” utile al cambio della scena al suo interno, ma anche un accento sull’ambientazione “psicologica” dell’aria, individualistico POV, e di quello che ne consegue.
Il Luigi di Gregory Kunde appare invece un po’ impacciato in scena e meno brillante nell’emissione rispetto ad altri ruoli da lui interpretati. Tuttavia, forte di una intrinseca inflessione drammatica che mette a piena disposizione nell’aria, altro capolavoro registico di equilibrio fra gli elementi scenici, porta a casa una prova nel complesso buona.
Fra gli altri è doveroso citare Enkelejda Shkoza, ben centrata nella parte di Frugola, con qualche asprezza nella zona più acuta; Didier Pieri (Tinca) e Marco Miglietta (Venditore di canzonette), mix perfetto fra smagliante vocalità e ottima presenza scenica; i teneri e commoventi amanti di Valentina Gargano e Eduardo Niave anche grazie (di nuovo!) all’impiego che la regia ne ha fatto.
Rispetto al Tabarro, il Castello del principe Barbablù è, invece, per sua natura più aperto a interpretazioni diverse, più duttile. Per questo se è forse più semplice esprimersi in una versione registica innovativa, non è però tanto scontato trovarne una che coincida e funzioni così bene con la parte musicale.
Qui è abbandonata l’idea di una scenografia che rappresenti le sette porte, anche se i video ne alludono, non diventano mai un surrogato di una struttura scenica assente o – peggio – una scontata riproduzione didascalica. Le porte sono insite nell’animo di Barbablù o, per meglio dire, sono materializzate da sette uomini, ombre dello stesso protagonista, che ostacolano fisicamente Judit fin dall’inizio. I corpi, così, sono scenografia e divengono essenzialmente strumento drammatico.
Un giudizio sugli interpreti, in un caso simile, non può prescindere oltre che dalla resa musicale anche da quanto avviene in scena. Così Szilvia Vörös supera la prova dimostrandosi una Judit completa, che raggiunge l’obiettivo espressivo sia sul piano musicale sia su quello interpretativo, trasformandosi da vittima apparente a carnefice consapevole. Una carneficina di sé e dell’altro come avviene in ogni coppia che si rispetti.
Il Barbablù di Mikhail Petrenko, al confronto, dimostra una sicurezza scenica forse anche maggiore, che riesce a dare importanza el minimo gesto, a mettersi a disposizione delle indicazioni registiche con tutto il corpo, in ogni posizione. Da notare solo qualche limite nella vocalità, soprattutto nel registro più estremo in acuto che appare a tratti appannato, a fronte di un personaggio, invece, reso alla perfezione.
Teatro dell’Opera di Roma
Il tabarro
Il castello del Principe Barbablù
Trittico ricomposto
Il “Trittico ricomposto” è un progetto triennale realizzato in collaborazione con il Festival Puccini di Torre del Lago in occasione del centenario della morte del compositore
DIRETTORE Michele Mariotti
REGIA Johannes Erath
MAESTRO DEL CORO Ciro Visco
SCENE Katrin Connan
COSTUMI Noëlle Blancpain
LIGHT DESIGNER Alessandro Carletti
VIDEO Bibi Abel
Il tabarro
Musica di Giacomo Puccini
Opera in un atto
Libretto di Giuseppe Adami tratto da La Houppelande di Didier Gold
Prima rappresentazione assoluta Metropolitan, New York 14 dicembre 1918
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi 11 gennaio 1919 (prima italiana)
PERSONAGGI E INTERPRETI
MICHELE, PADRONE DEL BARCONE Luca Salsi / Sebastian Catana (18)
LUIGI, SCARICATORE Gregory Kunde
GIORGETTA, MOGLIE DI MICHELE Maria Agresta
IL TINCA Didier Pieri
IL TALPA Roberto Lorenzi
LA FRUGOLA, MOGLIE DEL TALPA Enkelejda Shkoza
UN VENDITORE DI CANZONETTE Marco Miglietta
DUE AMANTI Valentina Gargano*, Eduardo Niave*
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Il castello del Principe Barbablù (A KÉKSZAKÁLLÚ HERCEG VÁRA)
Musica di Béla Bartók
Opera in un atto
Libretto di Béla Balázs
Prima rappresentazione assoluta Teatro dell’Opera di Budapest 24 maggio 1918
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi 10 gennaio 1962 (Il castello del Duca Barbablù)
PERSONAGGI E INTERPRETI
JUDIT Szilvia Vörös
BARBABLÙ Mikhail Petrenko
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
con la partecipazione della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Foto Fabrizio Sansoni -Teatro dell’Opera di Roma