Umanità al collasso, ed è caos. “La figlia di Kioto Zhang” non fa sconti.

13 Maggio 2024

“La figlia di Kioto Zhang”, ammirato in scena al Teatro Lo Spazio di Roma, dal 3 al 5 maggio, è uno spettacolo che riflette la temperatura ed il caos tutt’altro che calmo delle relazioni tra i giovani-adulti-forse ancora adolescenti del quotidiano contemporaneo. L’intreccio scritto da Massimo Odierna, che del progetto ha curato anche la regia, riflette come uno specchio concavo, convesso e implacabile la difficoltà di dare un senso compiuto a quanto accade alle persone, ai loro incroci, alla fiducia ed alla durevolezza dei rapporti. E’ una gran centrifuga, l’habitat umano allestito sul palco, un palco che abbraccia e circuisce il pubblico, spettatori quasi inevitabili di nevrosi, perversioni, insulti, degrado e amplessi. Ma, nel contempo, si irradiano lampi di benevolenza, speranza, altruismo, ed il senso più ampio della linfa vitale, l’Amore.
Respiri e sospiri, grida e pugni a terra: tutto è alla luce del sole, senza filtro, senza imbarazzi. I dialoghi hanno il merito di traslare continuamente dal registro drammatico a quello ironico, con un sarcasmo efficace e perspicace che inonda il quadrato bianco, enfatizzato da un sapiente disegno luci.
In scena Irene Ciani, Alessio Del Mastro, Enoch Marella, Federica Quartana, Giovanni Serratore, Sofia Taglioni. Attori preparati, passionali, appieno nei rispettivi ruoli, capaci di tirare fuori decibel e sudore, senza mai risparmiarsi. Evviva, aggiungiamo.
Si sbraita, si urla, non v’è tempo per decantare, ed anche gli sfoghi spesso sono sordi. Ingenuità, malizia, lotta per gli ideali, bullismo e machismo, vergogna. Un caleidoscopio che ha ben poco di un arcobaleno, ma è vero, vivo, non-convenzionale. La drammaturgia trasferisce che il concetto di “fare squadra” pressochè non esiste, ma è proprio quando si crea un sottile filo di collaborazione tra le monadi – personaggi in scena – che l’inganno viene superato, e laggiù, uno spiraglio di luce si apre all’umanità. Di quel poco che, purtroppo per i più, che – aggravante – neanche se ne accorgono, è rimasta.

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